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Opinioni di un clown (Dal mensile Rolling Stones)

Narra la leggenda, nemmeno troppo leggenda, che la Rca italiana cancellò il budget destinato alla promozione del primo lp di Renato Zero, No mamma no, quando si accorse che la messinscena di trucchi e mantelli dietro la quale si esibiva il cantante-ballerino-perform
er romano ricordava troppo da vicino quella di David Bowie. A quell'epoca, 1973, Bowie era una delle superstar della Rca con indosso i panni marziani di Ziggy Stardust. In realtà, a parte la trascurabile banalità della presenza in quell'album di un pezzo supertrash intitolato TK6 chiama Torre Controllo (“Sto sorvolando il cielo di Bombay / seguendo rotta dieci gradi nord / controllo impianto tutto quanto ok...”), Bowie e Zero condividono nella loro biografia due o tre cose abbastanza significative. Entrambi hanno girato la pubblicità per un gelato: Bowie per il “Luv'” della Lyons Maids (regia di Ridley Scott); Renato Zero per il Cornetto Algida (regia di un certo Damiani, ma i primi erano dei fratelli Taviani). Entrambi hanno preso lezioni di danza e mimo: il maestro di Bowie fu Lindsey Kemp; quelli di Renato Zero, Don Lurio e Renato Greco. Entrambi hanno bazzicato il cinema: Bowie ha fatto film di culto (ma di scarso successo) come L'uomo che cadde sulla terra, Gigolò, Absolute Beginners, Furyo. Zero fa capolino tra le comparse di Satyricon e Casanova di Federico Fellini, e vanta qualche cameo (presunto, a detta di molti esperti) nei film di Fernando Di Leo. Per non farla lunga aggiungo in versione integrale la risposta di Renato Zero quando gli ho ricordato i vecchi tempi e quell'incauta somiglianza: «In una scuola di Massa in Toscana a un’intera scolaresca di maschietti piccoli... Evidentemente a questa mensa gli fu dato del pollo, e questo pollo era pieno di ormoni, di estrogeni e a questi bambini venne fuori il seno... Perché dico questo?». Già, perché? «Perché dipende da cosa dài da mangiare alle generazioni. In quel momento si vede che il nutrimento che sostentava David Bowie erano le stesse carote mie!». La versione integrale è importante, perché bisogna starlo ad ascoltare Renato Zero con tutte le sue perifrasi, le circonlocuzioni, le metafore da poeta di strada, le cadenze romane, dalle quali si capisce perlomeno da chi ha imparato Paolo Bonolis. Ma questa storia degli estrogeni e delle carote ha pure qualcosa di geniale, dal momento che sia Bowie sia Renato Zero non hanno mai nascosto una passione per il post-atomico, il post-umano, il mutante, la fantascienza in genere. E insieme hanno manifestato attrazione per i Pierrot e le arlecchinate, per tutto il teatro e i suoi miti novecenteschi: dal cabaret all'happening, dal circo (Fellini, ancora) alla Commedia dell'Arte. «Nei primi spettacoli... Il rapporto col pubblico era che io rischiavo la vita», continua a raccontare Renato Zero. «Mi salvava la battuta... La risposta che davo puntualmente a questi impavidi era l'arma che me faceva portà a casa la pelle. Perché facevo accendere tutte le luci, andavo a pizzicare il malcapitato e je facevo de quei pezzi...». Ad esempio? «Mi ricordo che una volta al Baccarà di Lugo di Romagna, un locale che conteneva sulle 3mila persone, insomma una balera gigantesca, individuai il provocatore e je cominciai a correre dietro. Lo denudai quasi completamente e questo strillava: lasciami perdere o chiamo la polizia! E invece il pubblico ormai me l'ero conquistato, faceva il tifo per me. Questo povero cristo scappò dal locale. Poi je fu recapitato tutto a casa, dalla cravatta ai calzini». E naturalmente, azzardo, dato che era prevedibile il fatto che su 3mila persone in una balera ci fosse qualcuno che alla fine gridasse di tutto, la cosa era pure un po' calcolata. «Certo! Per me quello era un motivo anche di spettacolo, una sorta di happening... Tanto che quando ho conosciuto Lenny Bruce ho detto: ma caspita! Quello è mio cugino...». Se è vero che il nome d'arte, Zero, deriva dagli epiteti che gli tiravano dietro alla prime esibizioni, dopo Bowie abbiamo trovato un'altra parentela illustre a Renato Fiacchini. Forse per qualcuno sorprendente, ma fino a un certo punto. Renato Zero e le sue canzoni sembra esistano da sempre. Ma c'è stato un periodo in cui se le portava letteralmente nel bagagliaio con tutto il poco che serviva alla loro rutilante messa in scena. Su un furgone «Ford Transit a sei ruote», ricorda, «ribattezzato Orazio. Feci le rate per poterme pagà il furgone. Ma non potevo accende' un mutuo per pagarmi la band. Quindi ripiegai sulle basi musicali, che all'inizio la Rca italiana non voleva farmi usare. Incredibile a dirsi. Tu immagina che io incido dei dischi per una casa discografica e questa mi impedisce di andare a venderli attraverso gli spettacoli...». Perché alla fine degli spettacoli vendevi anche i dischi, giusto? «Vendevo anche i dischi, sì». Mica a caso c’è una canzone nel nuovo disco di Renato Zero, Presente (!), che si chiama Ambulante. Dice così: “Fidati pure di un ambulante / Se tu ci credi, ci credo anch'io”. L'ambulante è lui. Una delle figure chiave della mitologia personale costruita in 40 anni ed evocata costantemente nelle canzoni di oggi e di ieri, alla stessa maniera in cui, chessò, Bruce Springsteen vagheggia il rock&roll; dei suoi anni di scuola. Per questo, parlare del passato non imbarazza affatto Renato Zero, e neppure lo spazientisce. Anzi. «Lo dico in un altro pezzo nuovo: “il mio passato non si vende / finché io ci sono lui c'è”. Cioè, io non è che voglio imporre il mio passato. Ma vorrei che qualcuno lo confrontasse con questo presente...». Beh, a noi piacerebbe che lo facessi tu, questo confronto. «Il mio passato vince per 1000 a 1!», ribatte senza pensarci un attimo. «Però poi bisogna fare i conti con il futuro. Quindi se questo presente non si rende piacevole, non si rende vivibile, rischiamo di avere un futuro di nostalgie e questo non lo voglio per i miei figli, per i miei nipoti, per quelli che verranno...». E con la filosofia della storia siamo a posto. Ma per capire bene perchè Renato Zero è diventato Renato Zero, bisogna lasciare da parte il rock & roll e assumere una prospettiva diciamo così industriale. Infatti, Renato Zero è il figlio pazzo, la scheggia impazzita di uno dei pochi studios che l'Italia abbia mai avuto. Nel cinema, nello spettacolo, nella musica: Cinecittà, la Rai-tv, la Rca. Tutto a Roma, in quegli anni lì. La Rca al 12° chilometro della Tiburtina, dove i dischi si pensavano, si suonavano, si registravano ma soprattutto si facevano. Sotto le presse. Racconta lui: «Alle presse e all'imbustaggio io avevo degli amici veri. Pure alla mensa e al bar: Giulia, Bruna, Mario, Gino. Tutta questa gente per me si faceva in quattro. Invece, nella palazzina dirigenziale meno ce bazzicavo e meglio se sentivano. Ma siccome io avevo ormai in mano tutta questa popolazione di metalmeccanici, sono stati costretti ad aprimme il salotto bono e farmi accedere finalmente alla promozione. Da lì in poi, grazie a queste complicità i miei dischi funzionavano perché dal magazzino i miei amici li mettevano sui Tir, sennò nessuno li avrebbe spediti». E prima della Rca c'era stata la televisione (i Collettoni di Rita Pavone sul Secondo Canale, con Loredana Bertè e Mita Medici, tutti frequentatori del Piper). E pure il cinema. Anche quello, romano fino alla macchietta. Col retrogusto che ancora è possibile captare se ti intrattieni coi tecnici più anziani di uno studio Rai: epici scoglionamenti, ancestrale pigrizia di chi ha già visto qualunque cosa, battute che farebbero scappare con la coda tra le gambe qualsiasi comico di professione. Ne avremmo tanto bisogno di questi tempi in cui trionfa la macchietta milanese del commendatur faso-tutto-mi, e non certo per una questione di orgoglio regionale. Ma questa è un'altra storia. Comunque, ancora oggi Renato Zero lo chiama Federico. Fellini. Con lui evoca tutta la mitologia di comparse, capicomparse, caratteristi, ciccioni, ciccione, ometti smilzi che sembravano carta velina. Il circo. «All'epoca», ricorda quasi con rabbia, «ci voleva un gran culo per riuscire ad accaparrarsi una scrittura, un'audizione. Perché anche nelle audizioni c'erano questi capigruppo che sapevano già il finale del film, erano loro che scrivevano la sceneggiatura si può dire, quindi se tu non je risultavi al capogruppo, lui manco ti prendeva in considerazione. E quando se riusciva a firmà un contratto suonavano le campane de San Rocco». Che non so proprio dove siano, le campane, confesso. Il fatto è che la vita di Renato Zero (e della sua amica per la pelle di allora, Loredana Bertè) all'epoca era già uno spettacolo, un film, un happening quotidiano. Decenni prima dell'apparizione dei famigerati “book”, il book di Renato si squadernava ogni giorno per strada, da piazza Venezia fino all'ultima periferia, dove a sorpresa appariva lui, vestito come se fosse appena sceso dall'Apollo 11, l'astronave della Luna. «Io dov'era possibile, m'esibivo», ricorda ancora. «E spesso era Monte Compatri, erano i paesetti dei Castelli. C'è stato un momento in cui nei paramenti di cui mi vestivo erano presenti anche delle belle parrucche perché non potendo a 16 anni ancora svincolarmi dalla mia carta d'identità, dovevo per forza di cose organizzarmi un guardaroba che comprendesse anche il parruccame. Non potevo essere capellone ad oltranza, ancora...». Ci sono quintali di interviste che spiegano il perché e per come Renato Zero portò in giro “la sua diversità” come una specie di Frankstein dall'aspetto folle e dal cuore d'oro, imbottito di tutta la sorprendente e noiosissima ideologia hippie e beat di quegli anni. Chiedo a lui di riassumere ancora una volta, e questo ottengo: «Quel che cantavo allora aveva a che fare con una rappresentazione dirò addirittura, senza vergogna, mistica. La vestizione, il trucco, la pre- parazione, facevano parte essenziale di un messaggio. Poi anche da parte mia, non lo nego, c'era un certo godimento, una libidine quando mi presentavo al pubblico con quei connotati, perché questo mi serviva a capire meglio me stesso, i miei limiti, le mie possibilità. Io stesso diventavo una sorta di punchin' ball. Mi facevo gonfiare (riempire di botte, ndr) e accarezzare, dipendeva dalle serate». Adesso potrei citare il Living Theatre e Carmelo Bene, che in quegli stessi anni sconvolgevano l'ordine della rappresentazione, nelle cantine, nei teatri e nelle piazze romane. Ricorderò invece una cosa che ho visto tempo fa su YouTube: l'esecuzione in playback di Mi vendo a Discoring, fine anni 70. In uno studio televisivo già sconvolgente per il connubio di minimalismo e kitsch, Renato Zero sculetta in tuta leopardata fingendo di cantare e, già che c'è, fa roteare una borsetta da donna. È totalmente, disperatamente, solo. Già si capisce che quando andrà via, il pubblico di figuranti seduti per terra rimarrà a guardare il vuoto per due minuti interi cercando di capire che diavolo sia accaduto. «Mi vendo è una delle canzoni più disperate che abbia scritto», dice: «Un uomo solo, un Aladino che ha perso non solo la lampada ma la credibilità, che ha perso questa sua energia e va cercando un’identità definitiva...». Però la musica è quella di una marcetta disco, gli ricordo. Come venne fuori? «La musica l'ho scritta assieme a Mario Vicari detto er micio... Che è un essere squisito, romano in tutte le sue manifestazioni... Lui adesso lavora con Gigi Proietti, lo accompagna al pianoforte... Quando io ho iniziato, Vicari era un maestro alla Rca, quello con il quale ti confrontavi per le tonalità delle canzoni e la scelta del repertorio... Mario si sedeva al pianoforte con un piglio... E sfidava anche le aspettative, perché da me non ti aspettavi che cantassi delle cose del genere... A me sembrò una roba quasi magica, come diventare una sorta di clown. Con Mario scrivemmo Mi vendo, Il triangolo, Baratto... Tutti brani pieni di ironia...». Cioè, sembrava che dovesse uscire fuori Gloria Gaynor e invece veniva fuori Renato Zero. Come capita del resto ancora oggi in tutti gli spettacoli en travesti, sempre gettonatissimi nei club gay. Ma sentite qua: «Io affermavo la teatralità a campo libero, cioè complessivamente scevra di tutti i parametri, le consuetudini, per cui non era facile destabilizzare quello che era il regime gerarchico, cromosomico e anche sessuale della scena». Così teorizza Zero. E rileggete la frase, se vi sembra contorta. Prosegue: «Fino a un certo periodo non ci dimentichiamo che gli uomini quando arrivavano sul palcoscenico erano dei tori da monta, e le donne erano belle e rigogliose. Poi improvvisamente abbiamo visto che Paolo Poli era in grado di fare questo e quello, di garantire cioè la presenza femminile e quella maschile. E i Legnanesi?, ne vogliamo parlà dei Legnanesi? Io piacevo agli uomini e alle donne. Annavo bene a tutti, non rompevo i coglioni agli uomini né alle donne. Pensa che meraviglia». Che meraviglia. C'è un'altra canzone nell'ultimo disco di Renato Zero che si intitola L'incontro. Dice così: “Ne abbiamo viste di rivoluzioni io e te / come rispondere adesso al silenzio che c'è?”. E poi: “Che voglia di tornare in piazza / di fargli un culo così!”. Ma come?! Il Renato Zero anarchico, mezzo clericale, antiaborto, qualunquista, pifferaio, sorcino, il Renatino sbeffeggiato da legioni di imitatori (sempre peggio di lui), che fa?, vuole scendere in piazza perché non sopporta più “il silenzio che c'è”? Giro a lui il domandone finale. «La piazza per me non è la politica. Per me è l'urgenza. È quando nun te sente nessuno e allora scendi giù in vestaglia con le ciavatte e te mettì a strillà», mi spiega ancora con pazienza, avventurandosi lungo le solite strade tortuose. «Perché è giusto far sentire anche la propria voce, al di là che abbiamo degli organismi preposti per assicurarci la legittimità dei nostri pensieri e delle nostre aspirazioni, però laddove vengano meno queste premesse bisogna suonare il campanello, ogni tanto». Ah ecco, il campanello. Ogni tanto. Nel silenzio. Che c'è.

1 commento:

Lorenza Vitali ha detto...

CHE INTERESSANTE QUESTO PEZZO! MA LO SAI CHE LA ZIA DELLA MIA ASSISTENTE E' STATA PER LUNGO TEMPO (DAI MITICI '70) LA SARTA PERSONALE DI RENATO?